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Proteste e libertà di espressione- la crisi del 2020 come motore delle rivoluzioni sociali

Il 2020 è stato l’anno del Covid-19, ma non verrà ricordato soltanto per questo. Una sfida in termini sanitari, economici ma anche, e soprattutto, sociali.

Accese e numerose proteste si sono verificate in tutto il mondo, proteste che hanno dimostrato quanto in una situazione di crisi e di precarietà di certezze, la riaffermazione di diritti e delle proprie idee venga ad ogni modo avvertita come fondamentale ed urgente.


Molti movimenti esistevano già prima dello scoppio della pandemia, come i movimenti di Hong Kong e del Libano. Ma anche “Black Lives Matter” contro la violenza della polizia e il razzismo sistemico negli USA, riacceso in Primavera dopo l’uccisione di George Floyd, esisteva già dal 2013. A partire dalla stessa lotta contro la brutalità delle autorità, generata anche da sentimenti razzisti, sono esplose proteste in Colombia e Brasile, la prima in seguito alla morte di Javier Ordóñez, ucciso dalla polizia dopo una serie di colpi di taser; la seconda a seguito dell’uccisione di due bambine. Così come in Nigeria dove il movimento EndSars si oppone alla SARS, (Special Anti-Robbery Squad), reparto speciale della polizia accusata di torture e omicidi.

Analogamente nella capitale albanese si sono verificate proteste violente: a Tirana, centinaia di manifestanti di diversa età sono scesi in strada per protestare per l’omicidio di un giovane ragazzo di 25 anni, ucciso dalle forze dell’ordine.

Ma non finisce qui: donne e uomini di vari Paesi sono scesi in strada per protestare contro le politiche sessiste dei propri Governi. La violenza di genere in Bangladesh ha provocato la rabbia della popolazione; in Turchia l’assassinio della studentessa universitaria Pinar Gültekin ha generato una serie di manifestazioni.

In Polonia, migliaia di donne si sono opposte a gran voce contro una legge che avrebbe reso illegale il diritto all’aborto e l’educazione sessuale, ottenendo poi la dichiarazione di incostituzionalità di questa. Anche in Cile, dopo un anno di proteste si è verificata una svolta epocale: il favore del voto per una nuova Costituzione e la cancellazione dell’eredità di Pinochet.

Si è manifestato in Thailandia contro l’establishment del Paese; in Bielorussia, dopo la rielezione del presidente Alexander Lukashenko, al potere da 26 anni ed accusato di brogli e manipolazioni del voto; ma anche in Bulgaria contro la corruzione del primo ministro Boyko Borisov, in carica dal 2009.

I cittadini armeni, in seguito alla cessione dei territori di Nagorno-Karabakh all’Azerbaigian, sono scesi in piazza. Anche l’Etiopia è stata travolta dalle proteste dopo l’omicidio di Hachalu Hundessa, che attraverso le sue canzoni incoraggiava alla libertà e alla giustizia.


Accanto a questi eventi, ricordiamo anche le varie manifestazioni generate dalle misure restrittive imposte dalla pandemia, nel mondo ed anche in Italia.

Ultime per cronologia sono le proteste in Francia contro la legge “Sicurezza globale”, accusata di violare la libertà di stampa, di manifestazione e di espressione; la rivolta negli Stati Uniti e il caos nel Campidoglio, acceso dai sostenitori di Trump contro la recente proclamata vittoria alle elezioni di Joe Biden, pronto per l’insediamento alla Casa Bianca.

Inoltre, ad inizio di questa settimana, nel nostro Paese, tanti giovani studenti sono scesi in piazza per manifestare per il proprio diritto allo studio in presenza. In un periodo così carico di incertezze, la scuola avrebbe dovuto costituire l’unica solida certezza.

Alla luce di tutti questi eventi, riflettendo sulle proteste e la loro libertà di espressione, la nostra domanda di oggi è la seguente: qual è il confine tra garantire il diritto alla libertà di espressione e il rischio della sua stessa negazione?



Negli ultimi giorni, eclatante è stato l’accaduto che ha visto come protagonista il presidente degli USA uscente Donald Trump: siamo giunti ad un punto in cui la sua libertà di espressione, veicolante fake news, è stata limitata e inibita dagli stessi Twitter e Facebook, a tutela di una corretta e verificata informazione.

In questo caso, anche se la sua opinione influenza e ha influenzato in maniera negativa lo svolgersi degli eventi negli States, è giusto bannarla? E soprattutto si può parlare di negazione alla libertà di espressione?

Certamente il fatto che Twitter e Facebook siano stati costretti a bannare Trump per limitare i danni evidenzia una situazione paradossale che fa riflettere. In particolare, in un periodo storico nel quale, come ha detto Cacciari a Repubblica, i social sono diventati il mezzo attraverso cui si fa politica, tutto ciò fa riflettere sul potere dei Big Tech, ma anche sulla necessità di regolamentare in modo scrupoloso le notizie distorte potenzialmente veicolabili e l’utilizzo di questi mezzi di comunicazione.

Per rispondere a questa domanda, citiamo il paradosso della tolleranza di Popper. Esso stabilisce che una collettività caratterizzata da tolleranza indiscriminata è inevitabilmente destinata ad essere stravolta e ad essere successivamente dominata dalle frangi intolleranti presenti al suo interno. La conclusione apparentemente paradossale consiste nell’osservare che l’intolleranza stessa sia condizione necessaria per preservare la natura tollerante di una società aperta.

In sintesi, siamo ferme sostenitrici della libertà di espressione, ma riconosciamo l’importanza che quest’ultima non vada a ledere altri diritti fondamentali e valori primari, come la democrazia.

Martin Luther King diceva: “la mia libertà finisce dove inizia la vostra.”

Del resto, l’esercizio della libertà in senso assoluto non può esistere poichè deve inevitabilmente limitarsi nel momento in cui inizia un’altra libertà.



Laura Bergamaschi, Grisela Lleshi, Alessia Tonti.



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